La concentrazione, il pensare decaduto e il centro epigastrico
Non riusciamo a stare concentrati su un oggetto, su un pensiero, per più di 10 secondi.
La predisposizione dell’anima non è al concentrarsi su una singola idea.
Vi è una “brama” nel suo pensare che desidera continuamente mutare oggetto e contenuto di pensiero: come davanti ad una tavola imbandita da delizie e vini diversi, il pensiero desidera gustare continuamente sapori nuovi e stimolanti.
L’anima si disperde così di continuo, vagando da un tema all’altro. Ubriacandosi di idee. Il suo fissarsi su una singola idea, dura alcuni secondi. Poi sorge un impulso che la porta a voler “rinnovare” il contenuto pensante.
E non è l’anima che causa questo: non decide lei di perdersi nei pensieri. Vi è qualcosa nella sua natura che la obbliga a seguire una determinata logica di “rinnovamento” dei pensieri stessi.
Esiste una sorta di “antieconomia dei pensieri” che la spinge a rinnovare di continuo l’ambiente pensante. Al contempo questa logica è automatica. Tende a ripetersi, a cadere nelle stesse abitudini.
Questo accade perché vi è nell’uomo –da un lato- una sanissima e santissima legge di sopravvivenza entro la sua natura corporea che lo guida da millenni, sulla terra fornendogli impulsi di mantenimento della sua esistenza.
Queste forze “istintive” hanno avuto un ruolo fondamentale sinora per edificare la specie umana, sino a quando l’uomo non “pensava” in proprio. Esse lo guidavano, fornendogli indicazioni sul da farsi della vita. Queste Forze erano gli Dèi antichi.
Ora, la maggior parte di queste Forze divine si sono ritirate dall’evoluzione. Una piccola parte continua però ad agire. Si tratta di forze decadute, che persistono ad agire sull’uomo imponendogli una dipendenza: lo fanno pensare in modo confuso, disordinato.
Queste forze decadute, vorrebbero continuare ad operare come leggi di natura nell’uomo, per continuare a guidarlo come un figlio da tutelare. Vorrebbero che “pensasse” a loro modo; da questo esse traggono un vantaggio: possono nutrirsi di lui, attraverso la sua attività interiore.
Ma nel frattempo questo “figlio” o rampollo umano è cresciuto. Ha bisogno di conquistarsi una sua autonomia: e la può ottenere conquistandola nel pensiero. Egli “può pensare” in proprio. Se vuole.
Le discipline antiche hanno sempre insegnato che se l’uomo vuole conseguire l’unione (o ritrovamento) con il suo spirito divino, deve “uscire” dalla logica del pensare che è predisposto in lui per via naturale: superare il pensare automatico decaduto.
Elucubrare come avviene di solito, non porta ad incontrare e ad avere nessuna esperienza spirituale.
Ci sono varie tecniche. Dalle più intellettuali, ascetiche, magiche e filosofiche, alle più mistiche e pseudo religiose.
Concentrarsi è molto difficile. Perché è un procedimento contrario, opposto alla natura dell’anima. Non si raggiunge la concentrazione “sgombrando” la coscienza o “vuotandola”. Queste sono astrazioni. Non vi è cosa più difficile che “non pensare a nulla”.
Bisogna seguire una via: portare l’attenzione verso una singola idea, una sola forma. Da “politeisti” occorre diventare “monoteisti”: non credere più a tanti idee (pensieri vaganti o Dèi decaduti) ma ad un solo Dio (il proprio io).
E soprattutto, questa modalità di pensare non deve essere statica, ma deve muoversi, evolversi in varie fasi, come seguendo la storia di un moto, di una mutazione. Deve essere una concentrazione attiva, dinamica. Sconsigliabile ad un anima “pigra”.
Per superare la soglia della natura automatica del pensare occorre praticare uno sforzo iniziale. Senza di esso non si accede alla concentrazione. E’ come se vi fosse una “soglia” da oltrepassare. Non ci si può esimere dal compire uno sforzo che ci “sganci” dalla natura ordinaria del pensare.
Al principio compariranno sensazioni, pensieri che vorranno dissuaderci da questo impegno, del tipo: “non ha senso ciò che fai” oppure “non ti porterà a nulla”. Ci si deve dire: “va bene, vediamo se non ha senso, vediamo se questo non mi porterà a nulla. Ma intanto voglio provare a spingermi oltre”.
Verremo a conoscere una “schiera di tentatori” nel nostro pensiero: ci si può stupire di come quanta seduzione possa essere presente nell’ordinario pensare. Quanta volontà di nutrirsi di percezioni e idee che chiede nutrimento.
Il “modo” di concentrarsi dipende anche dal giorno, dalle influenze planetarie, dallo stato del bioritmo. Conviene ricercare fra le varie tecniche, quella “appropriata” per quel dato momento.
CONCENTRAZIONE
Prima di tutto occorre essere seduti, con la schiena eretta e dedicare non più di 15 minuti.
Ci si può concentrare su forme geometriche.
Ad esempio ad occhi chiusi, visualizzare un triangolo equilatero. Prima bianco sul fondo nero. Poi anche usando colori. Il triangolo equilatero deve mutare in isoscele, poi in scaleno, poi in rettangolo, poi in ottusangolo. Giunti qui, si ricapitola al contrario: ottusangolo, rettandolo, scaleno, isoscele e infine equilatero. Si deve continuare questa rivisitazione di fasi, sino a che non si consegue una retta sensazione di concentrazione: di fermezza e sicurezza.
Ma questo metodo può non essere quello “della giornata” o non “essere il nostro”.
Si provi allora a visualizzare dei numeri. Uno affianco all’altro: 1 poi 2 poi 3, sino a 10. Si osservi la sequenza dei numeri e la si ripercorra.
Si immagini una mano che scriva il proprio nome.
Oppure si pronunci i numeri dall’uno al dieci, prima in un senso poi al contrario, visualizzando le forme.
Un altro metodo è cantare mentalmente la scala: DO re mi fa sol la si DO e poi ripercorrerla al contrario: DO si la sol fa mi re DO.
Come fare a capire che si è raggiunta la concentrazione?
Prima di tutto, si ottiene un senso di fermezza e sicurezza inusuali.
Ma la constatazione maggiore è una modificazione del presentarsi dell’atto del pensare in sé: prima quando si pensava ad una cosa o ad una persona, si avvertiva una contemporanea connessione con la nostra parte epigastrica. Si tratta di qualcosa di tenue, solitamente, ma avviene. Si provi ad osservarlo, quando NON si è concentrati: pensare ad un dato viso, produce in noi un effetto che scivola dalla mente verso la gola e la bocca dello stomaco. L’evocazione di un pensiero va a stimolare la parte del centro epigastrico. Sede di un centro (chakra) importante.
Quando si è in stato di concentrazione questa connessione si scioglie. Si può osservare il pensiero, il viso, l’oggetto, senza sperimentare nessuna sensazione nella zona sopracitata.
Di fatto, il pensare ordinario produce una IDENTIFICAZIONE con l’oggetto pensato e la struttura dell’anima, sulla base di una legge di profitto e convenienza. Di simpatia e antipatia. Si può azzardare di dire: mentre il pensare “guarda” come occhio, qualcosa si inserisce, che lo trasforma in qualcosa di più simile ad una “bocca” che ad un occhio. Una bocca che parla, giudica, gusta, e apprezza. Vediamo come.
E’ come se, ordinariamente siamo “programmati” affinché un pensiero vada a stimolare la parte gastrica, la quale “valuta” se esso è degno di essere “mangiato”, se può “nutrirci”. Solo allora intraprendiamo inconsciamente tutta una serie di processi volti al godere di quell’immagine, che possono portarci al solo “godere” del ricordo o al desiderare rincontrare quella persona o cosa, per rinnovare il piacere.
Ma un immagine può anche essere non gradita, quindi non stimolarci, addirittura può “farci vomitare” (si dice). Mentre prima un immagine di pensiero può infiammarci, creare nostalgia o desiderio verso quella forma, possiamo sentire repulsione, antipatia, verso qualcosa che non ci può nutrire, anzi può come avvelenarci. In entrambi i casi sorgeranno due stati d’animo opposti.
Nel frattempo si è prodotta l’IDENTIFICAZIONE fra anima e oggetto.
Non si creda che nella stomaco vi siano forze negative. Sono forze benedette, che assimilano ed elaborano la vita. Ma rimangono “benedette” nella misura in cui assolvono al loro compito. Che è quello di occuparsi della nutrizione del corpo. L’equivoco e il danno subentra quando queste vengono “mischiate” ad altre funzioni, come appunto quelle del pensare. Sino a che la forza dello stomaco la impiego per digerire, compio un ciclo “divino”. Quando quella forza viene usata per nutrire la mia ambizione, i miei desideri e la mia volontà inessenziale, o addirittura la uso per “pensiero malevoli” verso altri, ecco che essa “scade”, da forza divina a diabolica.
Questo “decadimento” o uso “perverso” della forza è deputata a quelle entità sopracitate, definite come “decadute o ostacolanti”.
Di fatto, pensando, non osserviamo più solo un viso e la sua sensazione, ma lo abbiamo “mangiato”, gustato: esso ora fa parte di noi. Oppure lo abbiamo “espulso”, vomitato.
Ecco perché il pensare ordinario di continuo è insoddisfatto, in cerca di rinnovate percezioni; perché è un pensare avido, affamato, che vuole nutrimento. Più che un pensare che vede, è una “bocca che mangia”.
Durante la concentrazione attiva, il potere di IDENTIFICAZIONE si scioglie. Non siamo più “diventati” quel pensiero. Le potenze dell’ostacolo non agiscono più. Non avviene nessuna “commistione” utilitaristica fra noi e l’ente osservato. La mente non si collega più con il centro nello stomaco, e quindi non avviene nessuna comparazione di utilità o danno nei confronti della cosa. Si osserva la cosa senza partecipazione, senza profitto, vantaggi o interessi.
Avviene un osservazione oggettiva.
Che è il reale stato del pensare: essere uno strumento di osservazione priva di giudizio e valutazione. Un organo di percezione del reale essere in osservazione.
Tiziano Bellucci
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